La fase uno

«Ero agli inizi e mi trovavo nella fase più bella di tutte le cose che si intraprendono: quella del puro sogno»

Citazione tratta da La variante di Lüneburg, di Paolo Maurensig

 

Stati Uniti e Cina alla fine hanno firmato, il 15 gennaio, il tanto atteso accordo commerciale di “fase uno”. Un passo importante per le due superpotenze, che però si trovano ancora «agli inizi», in quel momento descritto da Maurensig come la «fase più bella di tutte le cose che si intraprendono: quella del puro sogno». E le parole trionfali del presidente americano, Donald Trump, hanno contribuito a creare questo clima idilliaco: il suo omologo cinese, Xi Jinping, è stato qualificato come «un mio grande amico», il quale ha siglato un’intesa che garantirà «un futuro di giustizia agli agricoltori, ai lavoratori e alle famiglie americani».

La prima parte dell’accordo comprende trasferimenti di tecnologia, proprietà intellettuale, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari ed espansione del commercio. Pechino aumenterà le importazioni di prodotti agricoli made in USA come carne di maiale, pollame, fagioli di soia, grano, mais e riso. Trump ha sottolineato che gli investimenti del Paese orientale riguarderanno anche il settore dell’energia e i servizi finanziari; inoltre ci sarà collaborazione in tema di svalutazioni monetarie competitive. Gli States, dal canto loro, revocheranno definitivamente il rischio di nuovi dazi al 15% su quasi 160 miliardi di dollari di prodotti cinesi, a cui Pechino avrebbe contrattaccato con tariffe su 3.300 prodotti americani.

Tuttavia, si nascondono molti nodi che dovranno essere sciolti nelle fasi successive, altrimenti il sogno rischia di diventare un incubo. Gli USA, infatti, non elimineranno i dazi al 25% su 250 miliardi di dollari di importazioni cinesi, mentre verranno solo diminuite al 7,5% (dal 15% attuale) le tariffe su 120 miliardi di dollari di prodotti made in China. Quando sarà definita la “fase due” dell’accordo? Per ulteriori sviluppi, probabilmente, sarà necessario attendere le presidenziali statunitensi del prossimo novembre.

I mercati, nel frattempo, avevano già scontato la firma dell’intesa iniziale. Sotto i rifletto ci sono i dati macroeconomici, come l’inflazione. Secondo il Bureau of Labour Statistics (BLS) americano, a dicembre 2019, i prezzi al consumo negli Stati Uniti hanno registrato un aumento dello 0,2% su base mensile contro il +0,3% di novembre (le stime di consensus prevedevano un altro +0,3%). A livello annuale, la crescita è stata del 2,3%, il ritmo più veloce degli ultimi otto anni dopo il +2,1% del mese precedente; un dato in linea con le previsioni degli esperti. Il core rate, ovvero l’indice dei prezzi al consumo depurato delle componenti più volatili come cibo ed energia, attentamente monitorato dalla Fed, è aumentato su base mensile dello 0,1%, dopo il +0,2% precedente. Il dato tendenziale, invece, mostra un aumento del 2,3%, in linea con il risultato precedente e con le attese.

Ma ci sono altri numeri da tenere d’occhio: secondo i dati pubblicati nei giorni scorsi, la crescita dell’occupazione negli Stati Uniti ha rallentato più del previsto a dicembre. In particolare, sono stati creati 145.000 posti di lavoro nei settori non agricoli, un risultato inferiore al consenso degli economisti che si aspettavano un aumento pari a 165.000 unità. Sempre a dicembre, il tasso di disoccupazione è rimasto invariato al 3,5%, in linea con le attese. Tali dati probabilmente non cambieranno la valutazione della Federal Reserve secondo cui sia l’economia che la politica monetaria vanno nella giusta direzione.

In Europa, invece, frena la locomotiva del Continente; infatti, nel 2019, il PIL della Germania è cresciuto “soltanto” dello 0,6%. Un calo netto rispetto al 2018 e al 2017, quando segnò rispettivamente un aumento dell’1,5% e del 2,5%. Lo ha riferito Destatis, l’istituto di statistica federale.  Parliamo della crescita più bassa degli ultimi sei anni. Dal punto di vista del bilancio, la Repubblica Tedesca ha chiuso il 2019 con un surplus record da 13,5 miliardi di euro. Il risultato è stato reso possibile, nonostante l’indebolimento dell’economia, dal calo dei tassi di interesse. Considerando le precedenti riserve non utilizzate, il governo guidato da Angela Merkel, potenzialmente, ha ora a disposizione 17,1 miliardi di euro per eventuali investimenti.