Future Mirror – Hexium punta sul “carburante” per la fusione nucleare

Oggi, nel mondo, esistono alcune decine di startup nel settore della fusione nucleare e, secondo la Fusion Industry Association, molte di queste aziende sono state fondate negli ultimi dieci anni. Con la maggior parte situata negli Stati Uniti, e poi Europa, Cina, Giappone e Canada.

Un trend significativo, tuttavia esiste un potenziale problema futuro secondo Charlie Jerrott, fondatore di Hexium, una società statunitense che ha l’obiettivo di risolvere i nodi che sorgeranno nell’ambito del “carburante” per la fusione.

Infatti, per produrre trizio — uno degli ingredienti chiave della fusione — serve un isotopo specifico del litio, che oggi è estremamente raro. E che con lo sviluppo nei prossimi decenni di questa tecnologia, sicura e sostenibile, diventerà prevedibilmente sempre più richiesto.

Jerrot, che lavorava nella startup Focused Energy, ha raccontato a TechCrunch che si è «reso conto che nessuno stava lavorando su questa parte della catena di approvvigionamento. Ci sono un sacco di aziende che fanno fusione. Ma non c’è una sola azienda che stia producendo il carburante per tutte queste».

Hexium, che stava già lavorando in modalità stealth, è uscita recentemente allo scoperto annunciando un finanziamento da 8 milioni di dollari. Il round è stato guidato da MaC Venture Capital e Refactor, con la partecipazione di Humba Ventures, Julian Capital, Overture VC e R7 Partners.

La tecnologia chiave di Hexium si basa su un metodo sviluppato decenni fa, che utilizza laser per separare gli isotopi del litio, denominato AVLIS (Atomic Vapor Laser Isotope Separation). Questo fu studiato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti negli anni ’80 per separare gli isotopi dell’uranio, ma successivamente, con la fine la Guerra Fredda, venne “abbandonato”. E tonnellate di combustibile nucleare invasero il mercato, provenienti da vecchie scorte di uranio ad uso militare sovietico.

Dunque, Hexium ha deciso di recuperare tale metodologia e adattarla alle esigenze per la produzione del carburante per la fusione nucleare.

La startup di Jerrott si concentrerà su due isotopi: litio-6 e litio -7. Per separarli, l’azienda utilizzerà i laser: quando colpiscono un atomo di litio-6 questo si ionizza. L’atomo ionizzato verrà condensato in forma liquida e sarà confezionato per venderlo. Questo sarà poi utilizzato dai clienti sia per generare trizio che per proteggere i propri reattori pilota e commerciali dalle radiazioni dannose.

Mentre il litio-7 rimasto verrà venduto agli operatori delle centrali nucleari convenzionali, che usano quell’isotopo come additivo protettivo nell’acqua di raffreddamento.

Nel corso del prossimo anno, Hexium userà i fondi raccolti per costruire e far funzionare un impianto pilota. Se tutto andrà bene, la startup replicherà il design in modo modulare per produrre da decine a centinaia di chilogrammi di litio-6.

«Non dobbiamo costruire un impianto grande come un Costco o uno stadio», ha fatto sapere Hexium. «Possiamo farlo in uno spazio grande quanto uno Starbucks, ottenere già buoni risultati economici su piccola scala, e poi semplicemente moltiplicare il processo».

Secondo la maggior parte degli esperti, le centrali commerciali di fusione nucleare su larga scala potrebbero diventare realtà tra il 2040 e il 2050, a seconda del ritmo dei progressi tecnologici, normativi ed economici.

Un’analisi del MIT ha messo in evidenza che l’energia da fusione potrebbe aumentare il PIL globale di 68 trilioni di dollari in uno scenario conservativo, o fino a 175 trilioni in uno scenario più aggressivo. Questo impatto sarebbe particolarmente significativo in regioni come il Sud Asia e l’Africa, dove la domanda di elettricità è destinata a crescere notevolmente entro la fine del secolo.

Tra le iniziative più interessanti, si può citare EUROfusion, un consorzio di ricerca europeo che coordina e finanzia la ricerca sulla fusione nucleare. Il suo obiettivo principale è proprio portare l’energia da fusione dalla fase sperimentale alla realtà commerciale, coinvolgendo più di 30 organizzazioni di ricerca e università in 26 Paesi europei, compresa la Svizzera.