Into the wild

“C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l’avventura. La gioia di vivere deriva dall’incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso… Non dobbiamo che trovare il coraggio di rivoltarci contro lo stile di vita abituale e buttarci in un’esistenza non convenzionale…”.

Tratto dal libro Into the wild di Christopher McCandless

 

Into the wild, il mercato dei bond Usa sta entrando in un terreno pericoloso per le Borse, un luogo selvaggio ma allo stesso tempo avventuroso. Dove per battere l’inflazione non si possono parcheggiare gli investimenti, ma bisogna dimenticarsi il conformismo e tenere alta la passione per l’avventura o meglio la crescita.

In una sola settimana (ovvero in appena cinque sedute finanziarie) il rendimento dei titoli di Stato statunitensi (Treasury) a 10 anni è passato dal 3,05% al 3,25% (il livello più alto dal 2011). Un incremento di 20 punti base in un lasso di tempo così ristretto è statisticamente rilevante. Anche perché il rialzo è stato più consistente sulla parte lunga della curva che non su quella breve (nel frattempo il rendimento a 2 anni è aumentato di 7 punti base al 2,89%). Il che ha reso nel complesso la curva del debito Usa meno piatta del solito, allontanando per il momento lo spettro di una recessione (solitamente anticipata proprio da un’inversione della curva dei rendimenti). Immediata la reazione di Wall Street: ieri S&P500  -3,2%, Nasdaq -4%. Ragionamenti basic da chi punta a sopravvivere: liquido le azioni che hanno corso molto, in vista di un investimento in bond, con rendimenti sempre più sexy.

In settimana, gli Stati Uniti mettono in asta fino a 230 miliardi di dollari di titoli governativi. C’è il timore che i cinesi, questa tornata, non saranno tra gli acquirenti, un’assenza che potrebbe contribuire a spingere di nuovo in alto i rendimenti dei governativi. Da settimane, a bassavoce, sui mercati si parla delle vendite di bond da parte di soggetti cinesi, una decisione che rimanda alla contesa commerciale in atto tra Cina e USA. Anche il progressivo indebolimento dello yuan, in graduale avvicinamento a quota 7 di cross su dollaro, può essere considerata una risposta ai dazi imposti da Trump sulle merci cinesi. Ieri in un articolo apparso sul China Securities Journal, scritto da un ex consulente della banca centrale cinese si leggeva che il Paese può tollerare un cambio dollaro Yuan anche oltre il 7.

La situazione si sta scaldando in vista del report atteso per il 14 ottobre della Commissione Usa incaricata di stabilire se la Cina sta manipolando il cambio.

La guerra commerciale si combatte prima sui mercati. Pechino non acquista Treasury e deprime il cambio, intanto la Borsa cinese è sui minimi.

Mentre in Usa l’aumento dei rendimenti è la reazione del mercato che fatica a digerire le ultime parole del presidente della Fed, Jerome Powell, che ha indicato di aspettarsi una crescita ancora “considerevole” e che “considerati gli attuali livelli di inflazione e disoccupazione” i tassi potrebbero salire anche oltre il livello ritenuto di neutralità (3-2,35%). Dunque si torna a monitorare dato macro dopo dato macro, per intercettare le mosse future della Fed.

Un tasso al 3,2% in Usa è sintomo di economia che corre anzi, che forse corre troppo. Da noi, in Europa, è l’opposto: il rendimento del 3,2% del decennale italiano fa davvero paura, è segno di un’economia troppo indebitata e che stenta a correre.

Il governo italiano si sta muovendo lanciandosi in un terreno “selvaggio”, inesplorato, con una manovra “espansiva” finanziata da maggiore deficit per promuovere la crescita. Fondo monetario internazionale, Unione europea, la ragioneria dello stato Bankitalia, Confindustria e persino i sindacati, hanno bocciato la manovra giudicandola poco credibile sul fronte della crescita.

Tremano le quotazioni del petrolio Brent dopo aver toccato i massimi degli ultimi quattro anni, ieri ha chiuso in calo del 2,8%, a 82,6 dollari al barile. In questi giorni manca all’appello quasi il 40% della produzione del Golfo del Messico, dove gli impianti sono stati messi in sicurezza in previsione dell’arrivo dell’uragano Michael. Questi prezzi del petrolio mettono in crisi non solo le economie importatrici, ma anche i produttori di greggio: un appello all’incremento della produzione è arrivato ieri dal direttore generale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, Fatih Birol. Ma la supplica non sembra sortire grandi effetti, invece si conferma salda l’alleanza tra Arabia Saudita e Russia, due tra i principali produttori di petrolio.

Chiamateci conformisti, tradizionalisti ma in Borsa preferiamo lasciare l’avventura ad altri e approfittare invece di un mercato dei bond che torna ad essere interessante.